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Viaggio nella valle dei Campassi

Il racconto e le immagini seguenti sono tratti dal sito "Dove comincia l'Appennino"

Mi lascio alle spalle Vegni: l'altalena di un piccolo parco giochi dondola ancora, si apre una persiana, il sentiero sale. Mia figlia mi stringe la mano: inizia il viaggio nella valle dei Campassi, in alta val Borbera. Da un albero vicino al cimitero, più in basso, riconosciamo un suono noto: l'inconfondibile martellare di un picchio: "un picchio verde, o magari il picchio rosso maggiore", penso. Maria Elena mi passa il cannocchiale: qualche secondo per mettere a fuoco (maledetta miopia!) e lo vedo: uno splendido e rarissimo picchio nero.

Poco più avanti lo sguardo cade nuovamente ad Ovest. Sui pendii scoscesi appare un altro miracolo, questa volta dell'uomo: il paese di Agneto con i suoi terrazzamenti narra di terre strappate alla montagna per ricavare cibo, pane. Sulla vetta, la cappelletta di San Fermo sembra indomita.

L'aria è tiepida, il sole caldo: la luce invita a salire ancora fino a quando il sentiero, girando ad Est, entra in un bosco secolare di faggi, ma proseguendo per pochi metri verso Sud appare la meraviglia. Il baratro della valle dei Campassi si mostra nella sua interezza, quasi arrogante.

La brezza è più decisa, il verde esplode negli occhi: fitti boschi di rovere, faggio e castagno... e nella gola più profonda, qualcosa come 700 metri più in basso, le acque rigogliose del rio Campassi segnano la loro imponente presenza. In faccia, all'orizzonte, si delinea l'inconfondibile profilo del monte Antola.

è il momento della contemplazione: ci fermiamo ad ascoltare il sussurro della Natura prima di ripartire alla ricerca delle tracce dell'uomo. Scendiamo ed entriamo nel bosco; si cammina per un'ora, poi appaiono i primi segni: una grande casa ci accoglie, al suo interno una stalla affianca i resti di una falegnameria. Siamo a Casone (o Casoni) di Vegni, primo dei paesi-fantasma della valle dei Campassi. La maggior parte delle abitazioni è priva di tetto: è stato il primo dei tre paesi della valle ad essere stato abbandonato negli anni Sessanta.

Proseguiamo per un'altra mezz'ora, fino a quando il sentiero sembra addolcirsi ed aprirsi; su un piccolo piano ecco la dolcezza e la quiete di Ferrazza. I segni dell'uomo sono qui più presenti: un gruppo di amanti della val Borbera, negli anni Settanta, ha comprato l'intero abitato ed oggi lo fa rivivere. Sembra non ci sia nulla eppure c'è tutto: l'acqua, una piccola teleferica, l'aia con i tavoloni, una madia che ospita una famiglia di ghiri ed alcune case in ottimo stato...

Lo so, busso alla porta della casa ed esce Marco Veirana. Ci abbracciamo e mi sgrida, come sempre, perché ho detto che "Ferrazza è un paese abbandonato". Suo cognato Renato lascia per un istante la falce (rigorosamente "a braccio") e si unisce alla festa, come sempre a dorso nudo: anche questa volta è venuto in mountain bike. C'è del vino, un po' di carne della valle, quella delle mucche che ancora mangiano l'erba... mia figlia corre felice nel praticello, ma l'appuntamento più importante è per l'ultima domenica di agosto alla tradizionale festa di Ferrazza.

Li lasciamo al loro paradiso, l'eco delle voci ancora nelle orecchie, e proseguiamo verso il misterioso e affascinante paese abbandonato di Renèusi. Un quarto d'ora di cammino. L'aria sembra cambiata: è sicuramente una sensazione. Ci avvolge il mistero, la memoria... le voci.

Sulla sinistra, prima di entrare nel paese c'è il cimitero: entriamo. Una rassegna di croci di periodi diversi riempie il piccolo campo: ci sono quelle arrugginite, le più antiche, le tombe un po' più recenti ed al centro "la più importante"... Davide Bellomo, morto giovanissimo: su di lui si raccontano un sacco di storie, d'amore e gelosia; non mi interessa ripercorrerle, so che qualcuno le ha amplificate, so che è una memoria che non avrà mai verità.

La memoria che ha verità e storia sono le date: Davide è morto alla fine degli anni Sessanta e la sua è la tomba più recente. Dopo di lui, solo l'esodo: gente che se ne è andata definitivamente da Reneusi e dalla valle, l'abbandono della montagna è la verità assoluta e per me devastante di questo splendido e affascinante luogo. Come dice Garcia Marquez, un luogo non esiste più quando non ha più morti da ricordare.

Lasciamo il cimitero e subito dopo, sulla destra, ecco la chiesa di Reneusi: una costruzione "a capanna" interessante e semplice; simbolo di una religiosità radicata e di altri tempi. Al suo interno, l'altare spaccato ci dice che è stata sconsacrata: qualche "assatanato" deve anche averci fatto qualche messa nera a giudicare dai rudimentali affreschi nei muri. Poco più avanti una casa a pianta circolare sembra piegata al sentiero: al suo interno scopriamo un rudimentale muro di assi di legno e fango ed un vecchio forno.

Siamo ad un bivio: a Sud-Est si prosegue verso il monte Antola, a Sud-Ovest si scende ai mulini del rio Campassi. Ci avventuriamo per un po' verso l'Antola, giusto per scoprire se è vero che esistono ancora resti delle antiche carbonaie. Camminiamo un'oretta nel bosco, attraversando rii rigogliosi e finalmente le troviamo: apparentemente semplici scheletri di piccole case, i resti delle carbonaie custodiscono una memoria storica di inestimabile valore. Per giorni, qui, la gente del posto trasformava il legno in carbone; poi, attraverso l'antica via del sale lo portava a vendere, a Genova, ad Isola del Cantone.

Torniamo a Reneusi e, prima di scendere verso i mulini del rio Campassi, scopriamo un'enorme cisterna d'acqua sottostante un'abitazione. Maria Elena, incuriosita, getta un sasso: il suono ci parla della sua profondità.

Dopo mezz'ora raggiungiamo i mulini: l'acqua gonfia il rio, ha piovuto da pochi giorni. Tutto attorno la vegetazione è naturalmente molto rigogliosa. è inevitabile bagnarsi un po' i piedi per attraversare il rio: nessun ponte, anche qui la natura sembra essersi ripresa tutto il suo.

Il Mulino dei Gatti ha un tetto in pietra ormai coperto di muschio: al suo interno due macine circolari, forse era un mulino per alimenti destinati agli animali; pochi metri più a valle, invece, c'è il Mulino Gelato, emergenza storica dell'alta val Borbera. Al posto della ruota esterna, sotto alla macina mi aspetto di trovare, come qualche tempo fa, le pale Pelton: grandi cucchiai di legno interamente scavati a mano. Un'opera d'arte.

Purtroppo, non ci sono più: qualche imbecille deve averle portate via per appenderle sopra un camino. Non riesco a nascondere la mia rabbia, mia figlia ha capito e mi chiede che cos'ho. Le racconto la storia e sono più tranquillo: la memoria resta.

è il momento di risalire: camminiamo fino a Boglianca e poi a Campassi dove rivediamo la valle da un'altra angolazione; riusciamo chiaramente a distinguere Ferrazza sui pendii antistanti e la salutiamo.

Costeggiamo il cimitero di Campassi e attraverso un sentiero molto più breve della carrozzabile scendiamo al ponte sul rio Berga. Qui svoltiamo ad Est, attraversiamo due o tre volte il torrente (la traccia del sentiero si perde) e raggiungiamo un altro mulino, questa volta con ruota esterna.

L'ultimo tratto è duro: dopo un'ora di salita finalmente raggiungiamo il cimitero di Vegni; poco dopo, finalmente, Maria Elena può tornare sull'altalena e si conclude il nostro indimenticabile viaggio nella valle dei Campassi.

- Danilo Bottiroli -


Tratto da "Viaggio nella valle dei Campassi" (Dove comincia l'Appennino) - www.appennino4p.it (06/2008)