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Figli di un Dio minore

Alla giovane Gina, Vegni andava stretto, così decise di raggiungere il fratello in città, precisamente a Torino. Pensava, la Gina, di poter sfogare sotto la mole la sua voglia di “vivere”, fatta di tanta vanità; si sentiva bella e fascinosa e va detto che lo era veramente.

Dopo qualche tempo dalla sua partenza giunsero in paese notizie inquietanti. Si vociferava che fosse finita in prigione accusata dell’omicidio del fratello, trovato morto ammazzato nella umile casa in cui abitava con la sorella.
Quando, scontata la pena, uscì di galera si iscrisse all’albo delle mala-femmine iniziando a frequentare una nota casa di tolleranza, dove i torinesi benestanti, all’insaputa delle mogli e delle madri, si concedevano un po’ di “svago”.

Tra questi vi era un barbiere non più giovane, che, tra una tagliata di capelli e un’aggiustata ai mustacchi dei clienti, usava recarsi in quella sala giochi, finendo un giorno fra le braccia della Gina. Si innamorò e, passato poco tempo, la sposò. Alla Gina non pareva vero, e al barbiere pure che, già avanti con l’età si trovava una bella donna in casa di facili costumi e a tariffa zero... si fa per dire.

Alla coppia mancava un figlio e per sopperire alla lacuna lo andarono a prendere in un orfanotrofio vicino al Po. Il bambino si rivelò presto gobbo e rachitico, ma ormai si erano affezionati e non lo avrebbero ricusato per nulla al mondo. Lo fecero studiare, alla buona si intende, tanto che sapesse leggere, scrivere e far di conto. Ma il destino si mise di mezzo facendo morire il barbiere, dopo una breve malattia.

La Gina si ritrovò sola e povera, anzi peggio perché doveva pure accudire il “Tilio”, così chiamavano quel figlio, (anche se agli atti era registrato come Arturo Trovati classe 1901). Cercò di riprendere il vecchio mestiere ma il tempo le aveva tolto il fascino indispensabile a solleticare l’altrui desiderio e dunque dovette rinunciare. Decise allora di tornare a Vegni insieme al “Tilio”. Le erano rimaste un po’ di terre, una stalla e una stamberga ad uso abitazione. Pur vivendo in miseria le erano rimasti il tratto e le movenze della signora di città, in particolare quando indossava qualche elegante vestito che si era portata da Torino, probabile regalo del marito defunto.

Ma gli anni e gli stenti le camminavano addosso senza pietà portandola piano piano all’estremo congedo. Così il Tilio rimase orfano per la seconda volta e senza possibilità di ulteriori adozioni. Campava con due otre capre che gli fornivano il latte e con il sostegno caritatevole del vicinato, incapace e impedito com’era di lavorare la terra. Dedicava buona parte del tempo libero a bestemmiare tanto che se avesse partecipato ad una competizione di genere avrebbe sicuramente vinto, con ampio margine. Malediceva, non a torto, la propria deformità fisica e soprattutto la madre naturale, secondo lui causa di tanta disgrazia.

Morì per incuria nell’anno 1961 all’età di sessantanni. Attraverso un testamento olografo lasciò il “niente” di cui disponeva al Parroco, che in cambio gli officiò la messa funebre.

Sulla sua tomba c’è una croce di legno con inciso – TROVATI ARTURO 1901-1961 – Se ci fosse spazio per un epitaffio si potrebbe scrivere:

Qui riposa Tilio, la morte gli tolse il disturbo di vivere...

- Ezio Avanzino - (2008)