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Il demone di Reneuzi

Un anno, dei primi del novecento Vegni cambiò parroco. Il titolare, già vecchio, venne dismesso e la Curia ne nominò un altro, più giovane e sveglio. Costui veniva dalla pianura e, precisamente, dalla “Fraschetta”, un lago di terra tra Alessandria e Tortona, enclave di mandrogni e zona nota per i prodotti D.O.C.: nebbia, mosche e zanzare.

Aveva servito in quel territorio, in qualità di curato, vari parroci, sempre con diligenza e timore di Dio, sino a quando, per decisione del Vescovo, fu promosso titolare della Parrocchia di Vegni, per lui un notevole avanzamento di carriera e per la sua famiglia una enorme soddisfazione. E così un tardo pomeriggio – in ta bassùa – a bordo di un asinotaxi entrò in Vegni, tra la popolazione plaudente e al suono delle campane, accompagnato dal suo staff: la perpetua e il cane.

Appena sceso dallo scomodo mezzo pubblico prese possesso dell'edificio canonico, un grande manufatto nel quale esisteva un locale sconosciuto ai più: il cesso, e volle subito sapere, dalla viva voce dei Fabricieri l'entità delle sue spettanze, ovvero l'indennità di trasferta che i vegnini gli dovevano versare in ragione d'anno: legna, patate, grano e altre derrate. Una sorta di 8 x mille ante-litteram, piuttosto casereccio.

Superato l'ambientamento durato qualche settimana e programmata l'attività parrocchiale fatta di Messe,Vespri e Rosari a cottimo, iniziò il giro delle famiglie residenti a Vegni e nelle borgate di Casone, Ferrazza e Renèuzi, quest'ultima dotata di indispensabili servizi alla persona: chiesa, campane e cimitero.

In queste visite toccò con mano l'assoluta devozione dei parrocchiani, sempre pronti alla preghiera, alla confessione dei peccati, alla sopportazione delle pene terrene e soprattutto puntuali nel pagamento dell'indennità di trasferta. Il tour lo portò pure a constatare come tutti si attenessero ad una dieta ferrea consistente in rari pasti a base di polenta e castagne, intervallati da una intensa attività motoria, a garanzia di fisici asciutti, privi di obesità, colesterolo e trigliceridi. Certo che a lui queste abitudini alimentari non piacevano affatto, era uomo di appetito e lo si intuiva da quanto, all'altezza della pancia, i bottoni della tonaca faticassero a stare dentro le asole.

Alla buona tavola associava anche la passione per la caccia che praticava in compagnia di Tuppy, un anziano segugio incapace e pelandrone , lascito di uno zio mandrogno, (trovato morto con la testa fracassata nel pollaio del vicino di casa.) E la sera, dopo l'ultimo rosario, si trasformava, a gentile richiesta, in giudice di pace nelle liti tra confinanti, in notaio nei passaggi di proprietà e persino in scrivano per coloro che intendevano comunicare con i parenti lontani, perlopiù militari ed emigranti. Fu a margine di una prestazione del genere che il Don venne a sapere, da un suo cliente predisposto alla delazione, che un contadino di Renèuzi, detto Peletta, manifestava in pubblico ed in continuazione, idee anticlericali tipo:
• "I previ i mangiu e niatri mièmmu" (i preti mangiano e noi stiamo a guardare)
• "Er pappa l'è pin de dinè" (il Papa ha tanti soldi)
• "Giexe puovie ne ghe nè nù" (chiese povere non ne esistono...)

La spiata lo rese insonne e la mattina dopo, per saperne di più, convocò i Fabricieri, i quali, con una certa reticenza, confermarono tutto; precisando però che non c'era di che preoccuparsi perché il Peletta era vecchio, malandato e poco ascoltato, e poi la Curia ne era da tempo a conoscenza. Tuttavia le rassicurazioni dei suoi collaboratori non lo tranquillizzarono per nulla; temeva che la Curia, a lungo andare, avrebbe dato, permanendo quel dissenso potenzialmente contagioso, un giudizio negativo su tutta la Parrocchia.

Sicché decise, non senza tentennamenti, di scrivere al Vescovo per chiedere i suoi luminosi e benedetti consigli in merito ai comportamenti da tenere nei confronti di quell'essere disdicevole, denigratore della chiesa, del Papa, e dei poveri preti.

La risposta dell'alto prelato non si fece attendere e, nonostante fosse scritta in perfetto latino, risultò nella sostanza vaga, inconsistente e volutamente confusa. Tradotta in volgare italiano voleva significare: carissimo, sono tutti ca**i tuoi.

Il Don, che non era scemo, capì di essere solo e, come si dice, con il cerino in mano.

Ma, ben presto e per sua fortuna, gli si presentò un'imprevista via d'uscita dalla spiacevole situazione in cui si era andato ad infilare. Infatti gli venne comunicato che il Peletta, colpito da un tumore alla prostata - “Er ma da prièia” - era gravemente malato e dunque aveva diritto, il prima possibile, a ricevere i sacramenti, come le regole religiose imponevano.

Da parroco furbo capì che poteva cogliere l'occasione per convincerlo a redimersi, e se ci fosse riuscito avrebbe cancellato, in un colpo, tutte le latenti incomprensioni con le gerarchie curiali e ridato alla Parrocchia un'assoluta tranquillità.

Così l'indomani, in fretta e furia, partì per la missione, munito del cesto per la raccolta delle offerte e in compagnia di due bambini nella veste di chierichetti, oltre, naturalmente, il Tuppy, nel ruolo di “canefesso”.

Durante il viaggio i quattro camminarono svelti senza mai fermarsi e a mezzogiorno suonato giunsero, “bellisudatimarci”, a casa dell'ammalato, nel centro di Renèuzi. La moglie, vedendoli arrivare, li accolse commossa e subito accompagnò il Parroco nella stanza dov'era il marito.

Il letto assomigliava ad una tomba; coperto da una rinfusa di stracci il Peletta mostrava solo il viso: il colorito tinta cenere, gli occhi semichiusi, la bocca semiaperta; era vivo e sembrava morto. Provvisto degli oggetti sacri il Don, pregando, gli impartì l'estrema unzione.

Quando ebbe terminato si accostò al moribondo, estrasse da una tasca un'ostia condita di pelucchi e polvere e, tenendola tra l'indice ed il pollice della mano gliela spinse fra le labbra, ma l'ostia tornò indietro. Allo stesso modo di una banconota, inserita a rovescio nella fessura di un distributore automatico. Sicché dopo un paio di tentativi lasciò perdere.

Con le braccia conserte rimase vicino al letto nella speranza di carpire da quel volto, disfatto dalla malattia, un qualche segno di pentimento. Sarebbe bastato uno sguardo supplichevole o un “si” mimato dal movimento della testa per testimoniare a tutti, vescovo compreso, il ritorno di quella pecorella smarrita all'ovile della grande madre chiesa.

Il gesto però non arrivava e il Don restava li muto ed immobile. Dopo pochi minuti e molto imbarazzo la moglie, forse per rompere quel silenzio.......di tomba chinò la testa verso il coniuge e quasi gridando gli sparò in un orecchio:
“tu cunesci? L'è u nostru preve” (lo conosci? è il nostro parroco)

E lui di rimando, con voce miracolosamente chiara:
“A mi u me pa er magnanùn da Cabella” (a me sembra lo stagnaro di Cabella)
Sentite quelle irriverenti parole il Sacerdote, livido in volto, girò sugli scarponi e in tre passi uscì dalla casa inseguito dalla donna che, per scusarsi, posò nel cesto delle offerte una dozzina di uova.

Nonostante la donazione il prete non nascose il suo stato d'animo nero come la pece e, radunata la comitiva, riprese la strada per il ritorno, non prima di aver recuperato il cane che , nell'attesa, si era divertito un sacco, giocando a guardia e ladri con le galline di mezzo paese.
Fecero tappa a Ferrazza e poi a Casone per raccogliere ancora un po' di questua, soprattutto uova, che la gente del posto offriva con generosità nell'illusione di cumulare un punteggio sufficiente ad acquisire il diritto al Paradiso.

Al nostro però la “futta”, il nervoso non passava e alla Fontana del Pagliaio, senza motivo, redarguì pesantemente i chierichetti perché vociavano troppo e, più avanti, al Pian di Rueiu assestò un paio di calcioni al Tuppy, reo di scarsa applicazione nella ricerca di lepri e volatili, comunque, passo dopo passo, il gruppo, un po' sgranato, giunse ai piedi della rampa che porta alla vista le terre di Vegni. Il lato B di "Costa dei Groppi".

Davanti i bambini con il cesto delle uova, subito appresso il cane che muoveva le orecchie e la coda a tempo di metronomo e alzava la gamba su tutti i cespugli. Un po' staccato seguiva il Don che aveva perso contatto con i primi perché impedito dalla lunga tonaca a stendere le gambe e allungare il passo. Egli, pur tenendo il breviario tra le dita, pensava poco al Vangelo e molto alle uova, che la perpetua gli avrebbe cucinato appena arrivato a casa.

Senonché il cesto, dondolato dai bambini, scontrò in una grossa pietra e si rovesciò facendo cadere tutto il contenuto. Il cane, sino a quel momento lento, apatico e distratto, recuperò un'attenzione insolita e precipitatosi su quel ben di Dio fece piazza pulita in un baleno, leccando a fine pasto anche le pietre del sentiero, quasi a lucidarle.

Il prete osservò la scena impietrito e quando cercò di raggiungere l'animale per assestargli un “piattone” da mandarlo all'altro mondo, legato nei movimenti dalla tonaca diede una tremenda stramazzata per terra e dalla sua bocca, spesso aperta alla preghiera, uscirono una infinità di imprecazioni che sembrarono bestemmie, e anche delle peggiori. Intanto i chierichetti, resosi conto del procurato disastro, guadagnarono la cima della salita e sparirono dietro il costone.

Sul posto rimasero il Don, che faticò non poco a rialzarsi, ed il cane. I due, a debita distanza, si guardavano con sentimenti opposti: Tuppy scodinzolava ed abbaiava a festa mentre l'altro, raccolto un sasso – na rocca- cercava di prendere la mira per colpirlo, niente, quello si spostava sempre un attimo prima del lancio. Il tentato omicidio durò poco e così entrambi ripresero la strada di casa.

Quando, in ordine sparso, la compagnia raggiunse Vegni scattarono, dopo un processo brevissimo, le pene più dure a carico dei colpevoli. I bambini vennero condannati, dai rispettivi genitori, al salto della cena e ad un tot di cinghiate sui glutei mentre il cane fu messo per una settimana agli arresti domiciliari, chiuso nella legnaia al buio e a regime di fame.

Anche il parroco quella sera, per sua scelta, non toccò cibo e andò a dormire presto; gli faceva male un ginocchio conseguenza della caduta. La notte non chiuse occhio e l'insonnia lo fece pensare a lungo alle sventure accadute e di cui era stato vittima; queste meditazioni lo convinsero che tutto dipendeva dai malefici orditi dal Peletta contro di lui.

Il giorno dopo si seppe che l'uomo si era congedato per sempre e gli si dovevano organizzare i funerali. Ma il Don mandò a dire alla famiglia che non poteva provvedere perchè stava male, che si rivolgessero al Parroco di Campassi.

Ritornare a Renèuzi, dopo quello che gli era successo gli pareva un rischio da non correre. L'anima svolazzante del Peletta poteva essere ancora li al solo scopo di procurargli altri guai ed altre disgrazie.



- Ezio Avanzino - (2011)